- Vuoi un pezzo bomba che darà finalmente successo al gruppo? Ce l’ho.
- Com’è?
- Allora, parte con un coro senza strumenti, poi diventa un lento, poi fa uno stacco di un paio di minuti tipo opera lirica, poi diventa un rock blues sporco poi torna all’inizio. Dura sei minuti.
- Tu sei sicuro, eh?
****
- Ho in mente una canzone da numero 1 in classifica.
- Bene! descrivimela.
- C’è una voce che fa “Ah Ah Ah Ah” tutto il tempo come base ritmica e una cantante che canta ma più che altro recita un testo dedicato a Superman, e ogni tanto c’è qualche altro strumento.
- Ma sei serio? E chi la canta: qualche diva che qualsiasi cosa tocchi diventa oro?
- No, Laurie Anderson, quella cantante d’avanguardia.
- …
****
- Ho un’idea per una hit da discoteca.
- Tipo?
- Prendiamo “Tu vuoi fa’ l’americano” di Carosone, ci mettiamo un ritmo coatto, semplifichiamo il ritornello a livelli barbari in “Pa pa americano” e ci mettiamo una tastiera irritante: che te ne pare?
- Fa talmente schifo che potrebbe funzionare.
- Visto?
****
- Dammi un’idea per vincere il David di Donatello per la canzone di un film.
- Giro di Do col titolo del film stesso?
- Dai… e chi canta?
- Jovanotti.
- Allora mi vuoi male.
- Guarda, vinciamo.
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- Oh, ti porto la più clamorosa hit italiana degli anni 2000.
- Cioè? Mega lentone d’amore con una bella melodia cantata da una con una voce clamorosa?.
- No: una satira sulla superficialità dell’amore di certi per le filosofie orientali, fatta con citazioni e giochi di parole, suoni orrendi da discoteca e un po’ di moralismo alla fine. C’è anche un genitivo sassone nel titolo e uno vestito da scimmione che balla.
- “La più grande hit”… certo, una formula ovvia, come no.
- Fidati.
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- Ho in mente un successone mondiale.
- Vai.
- Ritmo reggaeton, giro di Do, ogni tanto “iiihh” che rimane in testa e sopra una spruzzata di esotismo da cartolina e di spiritualità un tanto al chilo.
- Mi pare ottimo. Ma che vuol dire “Jerusalema”?
- È la parola nota ma cambiata così incuriosisce.
- Andata, vai.
*****
Hanno gentilmente partecipato: Umberto Tozzi, i Queen, Laurie Anderson, Carapellese-Lodi-Mango, Jovanotti, Francesco Gabbani e Master KG-Noncebo.
Qui sotto invece un altro dj italiano, Guglielmo Bottin, aveva creato una canzone partendo da You Wanted A Hit degli LCD Soundsystem proseguendo poi diversamente: quando l'autore l'ha sentita gliel'ha approvata e ne ha autorizzato la pubblicazione.Voilà:
noi frequentatori assidui di locali-club-arene-teatri-palisports, insomma di tutti quei posti in cui c’è qualcuno con degli strumenti e qualcun altro davanti,
noi che abbiamo visto più tipologie di posti da concerto di quante ne abbiano viste i Rolling Stones,
noi contemplatori seriali di palchi,
noi che se c’è qualcuno che vogliamo sentire usciamo pure di martedì sera a febbraio con l’allerta meteo,
noi che manteniamo i musicisti coi dischi e i biglietti,
noi che “vado al concerto perché basta coi dischi, ne ho troppi” e poi andiamo al concerto e compriamo pure il disco,
noi che diffondiamo le notizie agli amici che non seguono, facendo conoscere loro artisti che poi ameranno e informandoli di concerti che altrimenti non avrebbero visto;
noi insomma, i cui denari contribuiscono a mandare avanti la baracca, magari non tanto quanto il grande pubblico del pop o quello più occasionale ma sicuramente in modo più continuo,
noi insomma diciamo:
BASTA! CI SIAMO ROTTI!
È ORA DI FINIRLA CON
1. I TOKEN, accidenti a chi li ha inventati e a chi ha stabilito PURE una quota minima da comprarne: sono scomodi, aumentano i prezzi già alti all’interno delle aree concerto, sono EVIDENTEMENTE un metodo per farti perdere il conto e farti spendere di più. Se temete per il contante, carte. E al limite 2 monete maneggiatele e non rompete.
2. IL SUONO, PERDIO: se pago tanto per un concerto, il minimo è che si senta come si deve: o è una scelta estetica, oppure visto che è musica vogliamo sentirla BENE, o quantomeno come il gruppo vuole. Troppa sociologia sul concerto come raduno, come socialità: è vero, ma la musica rimane il centro, si deve SENTIRE, i raduni all’aperitivo.
3. I BIGLIETTI ALTI: vi ci vorrebbero un paio di annetti di ritorno degli autonomi degli anni ’70, con certi prezzi allucinanti ve li meritereste: 7 euro di prevendita? 3 euro in più perché NON mi stampo il biglietto ma per comodità lo vorrei solo sul telefono? Gli artisti saranno pure diventati più esosi da quando sono crollate le vendite dei dischi, ma poche storie: ve ne state approfittando e stop. Avete rotto.
4. I MEGACONCERTONI/MEGA EVENTI: intanto, se c’è più pubblico non si vede perché debbano costare di più (semmai un po’ meno). Poi sono scomodi, vedi da lontano (se vedi), il suono per forza è quello che è e sono una bolgia. Qui ci rivolgiamo anche ai musicisti: più date in posti più piccoli e gestibili: il vostro lavoro è SUONARE quindi SUONATE.
Già ci toccano gli incompetenti (cosa ben diversa dal curioso che viene a vedere, attenzione), i casinari fuori luogo, gli ultratelefonari (il souvenir foto/video piace a tutti, ok, però per la miseria… anzi, la MISURA…), l’abbandono dei teatri modello antico (gli antichi avevano capito tutto: gradinate a scendere intorno al palco, dovrebbero essere tutti come Fiesole);
poi, se andate avanti così, se per caso vi viene in mente di rispondere “liberi di non venirci”,
(che di fatto significa NON vedere un musicista o un gruppo, se di spettacoli fa solo quelli di quel tipo),
vi lasciamo con quel pubblico lì, che a un certo punto si stuferà anche lui e vi ritrovate come nel lockdown. Non vi piacerà.
Oscar Wilde diceva che “esperienza” è il nome che si dà ai propri errori:
NOI ESIGIAMO CHE L’ESPERIENZA LIVE NON SIA QUESTO!
Ci sono delle canzoni che a un certo punto può essere il caso di aggiornare, tipo questa. Così, partendo dall’originale di Eugene Pottier, sono passato per la traduzione di Fortini e quella di Billy Bragg, facendomi dare una mano (a loro insaputa) anche da Graham Nash e da Bowie: d’altronde mica potevo fare una cosa simile da solo, no? Ultima nota (mia opinione, la butto lì): per me il miglior plurale inclusivo è in -es: un po’ spagnolo e un po’ latino, è più facile e armonico da pronunciare rispetto all’asterisco, alla schwa e al plurale in -u; così l’ho usato nella quarta strofa.
ISZN
In piedi chi di ogni oppressione è vittima, a casa o al lavor, chi vive discriminazione, solitudine, ansia, terror;
ci dipingono fallati e strani, isolati, inferior, tapin, diritti sol da mendicare, condannati a questo destin.
Rit. 1:
Pugni d’ogni colore
verso il sole tendiam:
questo no appestatore
in un sì trasformiam!
Ladies, gentlemen, others,
questa lotta final
sarà solo d’ognuno,
sarà intersezional!
La schiavitù inizia a casa, più forte è in testa la prigion, mai liberi saremo fuori se anche nel letto entra il padron.
Nel cratere grande della mente bollon ragione e volontà di far l’umanes più splendente: oggi è fosco, rifulgerà.
Rit. 2:
Figlio del capitale e
del bigotto pensier
è il mondo diseguale
che noi farem cader;
siamo il rosso aurorale
della lucente età:
l’intersezionale
splendente umanità.
Dai fondi abissi dell’oceano su fino ai monti della luna, mille catene da spezzare ma la lotta è soltanto una.
Decretiamo la comun salute, tra noi pace, guerra ai tiran! Già tante mura son cadute, avanziam: le altre crolleran.
Rit. 3:
Lo stentoreo ideale
declamiam d’armonia:
pe’ il nostro Germinale
libertà non han gerarchia.
Per un sogno reale
dunque uniti seguiam
l’intersezionale
vision di libertà.
In piedi contro l’oppressione uniamoci, basta pietir: per sesso, classe o religione né per pelle dobbiamo soffrir.
Non esistono vere frontiere tra chi è oppresso di qua o di là, sbricioleremo le barriere alle potenzialità.
Io una cosa ho sempre capito poco di Genova 2001, ma ancor più di certa sinistra degli anni ’90: l’ottimismo.
Sarà che ci sono poco portato, sarà che l’attitudine mi è stata rafforzata dalla scoperta di spiriti affini come Robert Smith, Albert Camus, Marcel Proust e Ian Curtis (ma qui si pone un problema di uovo e gallina), ma insomma: per età mi ricordavo l’infanzia negli anni ’70, con quel movimento e quello slancio, e poi invece quegli anni ’80 (che chissà perché tanti rimpiangono e mitizzano) della superficialità, dell’arrivismo, del liberismo-giungla, dei lustrini fintissimi, anni che già sapevano di retroguardia e sconfitta, in cui le cose buone erano underground e quasi mi bastava ascoltare i Rolling Stones, non gli Psychic TV, per essere un alternativo - e attenzione: frequentavo un liceo deove c’erano il figlio del carabiniere ma anche i figli di Fuksas, non andavo al professionale del Quadraro.
Un decennio che si è chiuso con la caduta del Muro e, visto che non ne avevo capito del tutto le implicazioni, due anni dopo con la fine dell’URSS e conseguente canea di chi ne approfittava per dire che QUINDI il Socialismo era sbagliato in assoluto, molto silenzio nella parte di chi avrebbe dovuto distinguere, e Mauro che disse “co’ ‘sta storia di comunismo non si potrà parlare per una trentina d’anni”. Il pessimismo era diffuso, alimentato magari anche dallo “sconfittismo" di un Guccini, che confondeva l’odiare l’arroganza dei vincitori che ti faceva stare dalla parte dei “perdenti” (la schifosa retorica del “vincente” e dell’Esclusivo) col gusto di essere degli sconfitti: un equivoco poetico ma pericoloso.
Poi sì, i movimenti li facevo, mi sembrava doveroso, ma con ben poche speranze, se non quelle di vittorie parziali (rarissime anche quelle), mentre fuori, passato il breve sollievo per la scomparsa del CAF, c’era un centrosinistra che in pratica ti diceva che si poteva essere solo moderati per non spaventare gli elettori, una prospettiva da sconfitti quasi più dannosa delle politiche blairiane che poi ha fatto, mentre qualche criminale che scriveva su Cuore (mi sa il tremendo Roversi, il peggiore di tutti) diceva che non eravamo più classe o popolo ma ormai potevamo essere solo “consumatori consapevoli” (che a me ha sempre dato l’idea dei polli in batteria che si sentono liberi perché scelgono quale chicco beccare tra quelli che gli hanno messo davanti). E non nomino nemmeno il cumenda pidduista, che già bastava così.
Mi ricordo faticosissime e ingrate assemblee, che però si dovevano fare perché almeno ci provavi - perché poi i movimenti non finivano: sapevamo che ogni tanto ritornano, com’era successo in passato, e speravi che il tuo fosse quello buono: speranzoso ma ampiamente pronto al peggio, figuriamoci, ché di segnali positivi non ne arrivavano tanti e la mia impressione era che rispetto al sorgere del Sol dell’Avvenire noi fossimo più o meno in corrispondenza delle 2 di notte.
Seattle mi aveva un po’ fatto sperare, anche perché le manifestazioni erano state appoggiate dagli operai portuali e Genova… beh, il movimento contro la globalizzazione liberista (non ci dimentichiamo questo aggettivo che cambia tutto) mi pareva perfettamente in linea con l’essere comunisti, che lo sapessero o no i partecipanti. E di certo penso, o spero proprio, che nessuno si aspettasse di bloccarla con tre cortei a Genova.
Di quei giorni ricordo che a Radio Capital, NON Radio Alice o Telesoviet, invitavano gli ascoltatori a dire per quale motivo si sarebbe dovuto andare a Genova, cosa bisognava chiedere: del G8 si parlava come della circostanza in cui, siccome tutti i maggiori potenti della Terra erano lì, chi pensava che qulcosa al mondo non andasse bene poteva andare lì a dirlo in piazza: una cosa tranquilla, insomma.
Insomma, tranquilla: avevo sentito qualcuno, forse a un’iniziativa sul Chiapas, che aveva detto che in Messico i governi si preoccupano davvero quando vedono cortei in cui le immagini della Madonna stanno accanto a quelle di Zapata, perché vuol dire che si stanno saldando le due anime del popolo, e potrebbero venirne guai: devono aver pensato lo stesso qui (“macelleria messicana”, forse, non a caso) davanti agli autonomi che sfilavano con Pax Christi e hanno reagito col pugno di ferro (ti immagini che pericolo poteva venire da Pax Christi? E dai…). Poi l’11 settembre ha sconvolto tutto, ma i movimenti contro la guerra li facevamo, e come sempre anche altri, perché periodicamente ripartono
.
A Genova non c’ero per motivi di lavoro, ma era un movimento nel quale stavo tranquillamente, le mie idee e le mie ragioni c’erano - e la ragione ce l’hanno data la crisi del 2008 e quella ambientale, anche prima della pandemia.
L’unica cosa che posso dire ancora è che un’amica che doveva dormire alla Diaz si sentì male di stomaco e decise di tornare a casa sua: benedetta la pizza cattiva che aveva mangiato a cena.
Chissà che trame ci riserva il futuro; chissà se verranno fuori gli autori giusti.
Perché qualche difficoltà c’è stata dopo il biennio ’89-’91. Certo, la trama “mondo in due blocchi” era stata una trovata grandiosa, che era stato possibile portare avanti per 70 anni generando anche sottotrame interessanti - vedi quella di Hitler, potentissima ma forse un po’ eccessiva, anche se aveva lasciato molti residui utilizzabili successivamente - ma a un certo punto era diventata un po’ fiacca, ci voleva una scossa.
Anche perché la trama del Terzo Mondo che muore di fame appassionava sì ma fino a un certo punto: troppo lontana dagli standard di vita occidentali per coinvolgere un numero significativo di persone, bisognava trovare altro.
Nel ’91 si partì bene con la Guerra del Golfo: anche quella una buona idea (tant’è hanno potuto replicarla dopo circa 10 anni) ma era a tempo limitato. Allora, per movimentare la mega-trama del liberismo trionfante, buona come sfondo ma in sé noiosa e senza tutte queste attrattive (dai, chi può appassionarsi davvero a dei super privilegiati che ti dicono che in realtà sono stati bravi?), si è provato ad avvicinare, per così dire, il format Saddam portandolo in Jugoslavia (collegandolo così al finale della mega storyline sovietica): buona trovata, ma anche lì non poteva andare avanti più di tanto, benché anch’essa abbia generato un bis pochi anni dopo.
Così, visto che la trama-Seattle più di tanto non prometteva (ma la puntata di Genova ebbe un’incisiva potenza scenica), nel 2001 arrivò l’idea geniale: le Torri Gemelle e lo scontro di civiltà, con replica anche dell’Iraq ma in Afghanistan (che si riallacciava agli ultimi episodi del filone URSS). Una trama di forte impatto, aperta con la scena epocale dei grattacieli, ma anche questa era un po’ impegnativa: un vero scontro tra Cristianesimo e Islam sarebbe stato troppo - bisognava sconvolgere i sentimenti, le vite solo fino a un certo punto.
Dunque, relegata sullo sfondo come minaccia generica richiamata ogni tanto da qualche attentato e da guerre ed eserciti integralisti però sempre lontani, si doveva pensare ad altro. L’UE forniva spunti relativi, ce ne voleva una che li trasformasse in qualcosa di forte e di ampio respiro. Così è arrivata la crisi economica del 2008, la cui portata garantiva il giusto e vasto coinvolgimento.
Ma neanche questa ha invertito più di tanto la tendenza post-’89, ossia quella che privilegia tante trame che si intrecciano più o meno alla pari, senza quella veramente grande e dominante intorno alla quale far ruotare le altre: infatti si continua a riproporre format noti o a portare avanti trame stagionate (le primavere arabe, la Siria, la questione israelo-palestinese), a volte anche in modo stanco (ricreare la Guerra Fredda con Putin e Kim Jong-Un non funziona come la prima) per tenere alta la tensione con stimoli che arrivano da più parti.
Però non bastava neanche questo, era l’ora di qualcosa di veramente grosso, profondo e sconvolgente, qualcosa che segnasse davvero un’epoca nella coscienza collettiva; così, annunciata nei decenni scorsi da qualche epidemia minacciosa-ma-fino-a-un-certo-punto, è arrivato il Covid. Una botta di quelle veramente epocali.
Alla fine, una riedizione della Spagnola ma con meno sangue, eppure in epoca di iperconnessione ha funzionato benissimo. Probabilmente sarà limitata nel tempo (sembra quasi che si stia avviando ad essere relegata a sottotrama come le altre), ma a livello di profondità ha colpito davvero.
Ora chissà che trame vedremo in futuro, chissà se dal passato possiamo immaginare cosa verrà; però, se gli autori sono a corto di idee possono sempre rivolgersi a qualche nuova leva.
Per esempio, io mi rivolgerei a chi è riuscito nella titanica impresa di rendere se possibile ancora più litigioso e diviso il campo della Sinistra in Italia, ovvero quella o quello che ha pensato alla trama dello scontro tra Rula Jebreal e la trasmissione Propaganda Live. È giovane, ma pare proprio che abbia talento e idee (nonché il coraggio di capire che la partecipazione della giornalista al Sanremo de “le donne un passo dietro agli uomini” non sarebbe stato un impedimento): io ci punterei subito.
20 anni fa, mentre ero in un negozio di dischi (mi pare a Roma, via Nazionale, verso piazza Esedra) trovai un disco che mi incuriosì: era Sex O’Clock di Anita Lane (suo secondo disco da sola), che avevo sentito nominare riguardo a Nick Cave, ma oltre al nome e al bel titolo mi intrigava il fatto che tra le canzoni c’era elencata… Bella ciao! Che ci fa un canto partigiano nel disco di una indie australiana, con tailleur celeste e copertina da elettronica francese?
Mi feci convincere, lo comprai e feci bene: era un bel disco effettivamente francese - in quel periodo scoprivo Gainsbourg e in effetti ricordava il periodo Melody Nelson, anche perché Mick Harvey, che arrangiava e suonava, è anche lui amante del cantante francese. Bella ciao, invece, era effettivamente quella nostra, resa in una versione lenta e suggestiva (e tradotta in inglese). All’epoca scrivevo per il defunto sito napster.it e colsi l’occasione per una tripla recensione al femminile (le altre due erano Nada e Tori Amos), anche se di differenza ne so poco ora e ancor meno allora (a rileggerle, però, meglio di quanto temessi).
La cosa buffa fu quando la feci sentire al mio amico e allora coinquilino Sergio, appassionato tra le altre cose di musica popolare, che apprezzò molto la versione e il disco in generale; così andò in rete a cercare notizie su di lei: ce n’erano poche ma a un certo punto trovò qualcuno che ne parlava: non fece in tempo a dire “ma allora oltre a me e Giulio…” che si accorse che era la mia recensione, che qualcuno aveva copiato e messo sul suo blog (col mio nome, per fortuna: grazie).
In realtà l’amavamo in tanti: peccato non averla mai vista dal vivo e non averglielo potuto dire di persona.
Intanto, a ridosso delle feste rosse, riascoltiamola:
Questa, invece, era la tripla recensione, così com’era
(si vede che è del 2001, quando l’idolo polemico per colpire il pop da classifica era Britney Spears; si vede che avevo 20 anni di scrittura in meno, con le ingenuità e le precisazioni rivolte a un pubblico generalista):
QUELLO CHE LE DONNE DICONO
Nada, Tori Amos, e Anita Lane non hanno bisogno di ricorrere a Enrico Ruggeri per parlare di sé e del loro essere donne in termini espliciti, consapevoli e lontani dai luoghi comuni. Tre ottimi dischi di tre grandi artiste.
NADA: L'amore è fortissimo e il corpo no
In effetti, per dare voce ai suoi sentimenti più intimi l'artista livornese ha avuto bisogno all'inizio di un aiuto maschile; ma l'uomo in questione era Piero Ciampi, uno dei più raffinati e sensibili cantautori italiani, scomparso ormai 22 anni fa. Furono infatti lui e il suo fido collaboratore Gianni Marchetti a comporre e produrre Ho scoperto che esisto anch'io, il disco con cui nel 1973 Nada cominciò a cercare di togliersi di dosso l'immagine da Britney Spears di allora che le avevano cucito addosso i discografici.
Nada allora era una divetta da Sanremo; e il disco, che è un autentico capolavoro, ovviamente non ebbe granché successo: troppo diverso dai suoi binari usuali fino a quel momento. Dopo si è alternata tra il pop leggero e progetti più impegnativi, giungendo con il penultimo Dove sei sei (che conteneva Guardami negli occhi, con laquale partecipò a Sanremo '99) e questo ultimo lavoro a una piena maturità anche come autrice.
Nel disco, infatti, Nada tratta con mano salda un ventaglio di sentimenti, umori e temi tipici di una donna che ha vissuto intensamente, che scava nelle proprie esperienze per raccontarcele senza mediazioni. Esemplare in questo senso è Meraviglioso, sorta di punk in stile CSI con un testo che dimostra che Nada non ha paura di affrontare in termini franchi argomenti anche spinosi,come il rapporto di conflitto con i genitori e il sesso (in fondo "L'amore è fortissimo e il corpo no"); contravvenendo in questo caso alle convinzioni bigotte del mondo del pop che vorrebbero che una signora non toccasse certi argomenti (ma Nada in questo senso si era già espressa: dai doppi sensi di Ti stringerò (1980) e Vieni mai alla ben più esplicita Glu glu, entrambe dal penultimo).
A parte l'iniziale parabola di Gesù (il personalissimo rapporto con la religione è uno dei temi ricorrenti del disco) il resto è un viaggio nell'universo femminile, sia suo personale che generale. Conosciamo così Giulia, che pensa che "Dio è scarico"; ascoltiamo l'autrice nei momenti disperati di un amore finito (Suonano alla porta) o in quelli sereni ("Grazie per avermi spezzato il cuore, per avermi anche amata nel momento migliore"), o mentre con piglio di bambina invita a una danza leggera, o mentre si chiede "In generale dove ho sbagliato? Tra un ramo che si spezza e una donna che si lancia da una finestra che cosa ci passa?".
Alla fine, con l'ultima canzone, Nada domanda "La vuoi questa donna?", completando così questo ritratto sfaccettato e coraggioso di una femminilità insieme antica e nuova. Nella speranza che i "sì" siano numerosissimi ...
ANITA LANE: Sex o'clock
Su un morbido tappeto musicale che richiama certi dischi di Serge Gainsbourg, Anita Lane torna a parlarci di sé dopoil precedente e lontano Dirty Pearl.
Il richiamo al celebre cantante francese scomparso non è casuale: le musiche di questo disco sono opera (eccettuate tre covers) di Mick Harvey, storico collaboratore di Nick Cave (per inciso, ex-fidanzato della Lane) e titolare di due album di tributo a Gainsbourg nei quali traduceva in inglese numerosi suoi classici. A questi due dischi aveva partecipato attivamente la stessa Anita Lane, e non è strano rievocare, per un disco in cui il sesso è presente come argomento centrale fin dal titolo, l'autore che scandalizzò il mondo sussurrando "Je t'aime moi non plus" insieme a Jane Birkin (in uno dei due dischi di Harvey ne è presente una versione cantata da Nick Cave e dalla Lane).
In realtà questo disco parla anche d'altro: dell'amore come grande passione fisica ma anche come annullamento di sé (I love you, I am no more);del senso di estraneità a sé stessi e agli altri (A light possession); della rivendicazione orgogliosa di una propria identità indipendente dai tentativi di sottomissione da parte della persona amata, come in The Next Man I See e, come anche Nada, del rapporto conflittuale con la famiglia (Home is where the hatred is, che è una cover, ma non credo sia un caso se è stata posta in apertura di disco).
E come nel disco di Nada, ci troviamo davanti il ritratto di una donna non comune, che pur senza proclamare grandi rivoluzioni cerca una via personale in un mondo che cerca soltanto schiavi sottomessi, e l'unica differenza che ammette nelle donne è quella di essere schiave.
Dev'essere per questo che il disco si chiude con una cover (in inglese!) di Bella Ciao; non si capisce però, allora, come mai nella traduzione siano sparite le ultime due strofe. Problemi di traduzione? A parte questo la cover, lenta e suggestiva, sebbene sembri più focalizzata sulla morte che sul partigiano, è davvero di rara bellezza, e chiude alla grande un disco notevole, che piacerà a chi si non vuole rassegnarsi a pensare che la "musica al femminile" si limiti alle varie Anastacie, Pausine, Marie Carey, Britneys varie.
TORI AMOS: Strange Little Girls.
Qui la questione della differenza sessuale viene posta esplicitamente. Il disco, infatti, è composto di dodici covers di canzoni scritte da uomini, con l'intenzione deliberata da parte di Tori Amos di rovesciarne il punto di vista. Brani di Neil Young, Depeche Mode, Tom Waits, addirittura Eminem e gli Slayer vengono riletti dalla sua voce limpida e dal suo piano. In alcuni casi, come il brano degli Stranglers che intitola il disco, con risultati superiori all'originale; in altri, ad esempio "Enjoy the Silence" dei Depeche Mode, i risultati sono controversi: personalmente ho apprezzato, altri no.
Va detto che i motivi della scelta di alcuni brani non risultano molto chiari: Heart of Gold di Neil Young o Time di Tom Waits non hanno testi così "maschili" da disorientare se cantati da una donna. Nel caso di Bonnie and Clyde 97 di Eminem e di Raining Blood degli Slayer, invece il contrasto è abbastanza evidente; così come ha un effetto piuttosto straniante sentirle cantare la splendida Real Men, una canzone che analizza i ruoli sociali dei due sessi con cui Joe Jackson dichiarò la propria omosessualità. In I don't like mondays dei Boomtown Rats di Bob Geldof, poi, la protagonista del brano passa semplicemente a parlare in prima persona.
Di Heart of Gold, completamente riarrangiata rispetto all'originale, non si capisce come mai sia stata trattata in modo tale che sembra più I wanna be your dog degli Stooges che non Neil Young; trattamento analogo ma decisamente migliore come risultati, ha ricevuto Happiness is a warm gun, un capolavoro di John Lennon contenuto sul doppio bianco dei Beatles, che è stata trasformata in un lunghissimo brano acido con voci che si rincorrono. Insomma, musicalmente ci troviamo di fronte all'alternanza tra brani sommessi per voce e piano e altri con soluzioni sonore più audaci che è tipica dei suoi dischi.
Nel complesso, Strange Little Girls è un'opera decisamente particolare per concezione, e rappresenta un confronto coraggioso con brani di autori illustri (o quasi: Eminem si può apprezzare, ma definirlo "illustre" ...). Già in passato Tori Amos si era cimentata con brani altrui (ricordiamo una magica Smells like teen spirits dei Nirvana per voce e piano), e questo disco si colloca sia nel suo personale filone di reinterpretazioni che nella sua militanza femminista. E se si può concordare col recensore di www.allmusic.com che l'intento della rilettura di canzoni maschili da un punto di vista femminile emerge chiaro più dalle interviste che non dal disco, è anche vero che ci sembra davvero ingeneroso il suo commento che "questo è un classico disco di Tori Amos, solo meno interessante perché non ha scritto lei le canzoni": e che Lou Reed, Neil Young, Tom Waits, Lennon/Mc Cartney, Loyd Cole e Joe Jackson sono scartine?
Ho letto qualche volta che “la sinistra” si sarebbe “appropriata” della festa del 25 aprile che “è di tutti” perché tra i partigiani c’erano anche democratici e centristi.
Allora: intanto, se è di tutti, non vedo perché non possiamo festeggiarla. E non vietiamo a nessun altro di farlo.
Poi: la liberazione dal nazifascismo è una festa nostra: non solo nostra, certo, ma lo è, visto che eravamo i principali nemici/obiettivi di fascisti e nazisti, specialmente quando hanno cominciato la loro ascesa; e che per dire, hanno ammazzato il socialista Matteotti e non, che ne so, Salandra, Bonomi o Giolitti.
I democratici poi, almeno alcuni, dovrebbero pensare a quando hanno appoggiato i “neri” nella speranza di togliersi di mezzo i “rossi” - vedi appunto Giolitti che ci fece le alleanze elettorali o le varie potenze europee che tardarono a intervenire contro Hitler nella speranza che togliesse loro dalle scatole l’URSS - invece di predicare su ciò che festeggiamo noi e come.
Non sto io a dire chi deve festeggiare e chi no, ogni partigiano, ogni antifascista e ogni democratico che sente sua questa ricorrenza ha pieno diritto di celebrarla; dico solo, a chi parla di “celebrazioni ormai rituali e vuote”, che un buon modo di riempirle sarebbe essere antifascisti tutti i giorni e in ogni circostanza, sotto qualsiasi nome si ripresentino quelle idee orrende.
Detto questo, auspico anche una Liberazione da tutte quelle gabbie, morali e di conformismo, che non siano la necessaria autodisciplina e padronanza di sé che ci vogliono per essere liberi davvero;
una Liberazione da chi vuole porre alla libertà delle persone limiti diversi dal rispetto di quella altrui, creando gabbie mentali che sono una scuola di schiavitù, un’abitudine alla sottomissione che parte dalla vita di tutti i giorni per prepararti a essere sottomesso politicamente;
una Liberazione da tutto ciò che ci impedisce il cammino verso il dispiegamento delle nostre piene potenzialità;
insomma, direi che auspico una liberazione da tutto ciò che ci impedisce di diventare davvero, o di provare a diventare, il Superuomo.
Indico oggi perché era il giorno in cui dovevo andare dall'editore a parlare di varie cose (copertina e altro): pensavo che ci saremmo limitati a quello, ma invece uscii con le prime copie del libro.
È stata una gioia incredibile e una grande soddisfazione, anche se di successo non si può parlare: ma forse invece sì, perché dopo aver scritto poesie per tanto tempo questa era in qualche modo una ratifica, un punto di arrivo e di partenza.
Qui accanto le notizie su come eventualmente ordinarlo e i link alle poesie che avevo già pubblicato qui, mentre più in basso, nel post precedente, le notizie sul suo successore (anche questo, ahimè, con la R e non con la N), uscito l'anno scorso.
Sono nato più o meno quando gli astronauti sono partiti per la luna e da allora sono lunatico.
Ho cambiato 15 case circa a Roma e dintorni e altre 16 da quando mi sono trasferito a Pisa.
Altissimi tassi di bolscevismo nel sangue, della varietà "sprezzantemente impenitente".
Poeta demenziale di rara bravura (o giù di lì), come dj sono quasi meglio (mh, più o meno) - se la battono.
Ah, dimenticavo: il postmoderno mi piace, tutto sommato mi ci trovo bene.