lunedì 23 novembre 2009

Gli occhiali di Midge Ure

Tempo fa scrissi una poesia per celebrare la bella esperienza di aver partecipato all'organizzazione della lettura integrale delle Metamorfosi di Ovidio, organizzata nel 2004 dalla Normale col titolo di Mare Nero.
A un certo punto del sublime carme, che si chiama Mutazioni e che non è qui sul blog, facevo una similitudine che capivo solo io con gli occhiali di Midge Ure: anche il resto della poesia era verbosa e contorta, in verità, ma quel passaggio era proprio incomprensibile, a meno di un superintuito, a chi non fosse me.
Ora lo spiego, avendo finalmente scritto la poesia esplicativa che avevo in mente già allora e pubblicandola; dovrebbe essere leggibile anche autonomamente, aihop.



Nel mezzo del cammin di nostra vita
(io spero un poco prima) mi trovai
a fare un piccolo salto nel tempo
in fondo a un grande negozio di hi-fi.

Dentro la stanza dei 5 + 1,
dolby surround, grossi televisori,
c’era un programma che, quando lo fecero,
per me era nuova la tv a colori.

Uscito in dvd dopo vent’anni,
più o meno, lo mandavan su ogni schermo;
e mentre con la mente andavo indietro
col corpo ero incantato, e stavo fermo,

fleshato a ricordar quel vecchio giorno
del gran concerto detto “Vita Aiuto”,
con gran parata di nomi preclari,
vecchi e chi il successo aveva avuto

da poco e in quel momento cavalcava
la cresta pop dell’onda nuova inglese;
e il vertice era senza dubbio quello,
suonare trasmessi in ogni paese.

E già lo stadio a Londra era strapieno
più di ogni altro possibil lor concerto;
tra gli altri, sul palco inglese Midge Ure
salì – benché fosse estate – coperto.

Sarebbe più esatto dire protetto
dalla pressione dell’immensa folla:
lo spolverino ’80 a far corazza,
barriera la chitarra ad armacolla,

gli altri Ultravox a coprire le spalle,
tutti schierati dietro a una canzone
anch’essa stile ’80, ai cui riff
aggrappare la lor concentrazione.

Cantava in essa di lacrime agli occhi
ma pure quelli avevano davanti
una barriera, ossia occhiali a specchio
che riflettevan di Wembley gli astanti

nella parte inferiore, mentre in quella
più alta c’era il cielo sovrastante
sbiadito dal catodico, ma a luglio
so che era più intenso: sempre distante

nella sua immensità sotto la quale
tutto succede, si alterna e scompare
in giorni triturati in successione
di oblio, dal quale li viene a salvare

un qualche fatto pubblico o privato
che stampa un segno sopra a una giornata
ed è come se al muro l’appuntasse
dopo che dal cestin l’ha ripescata.

E mi chiedevo cosa avesse in testa
in quel momento che non scorderà,
in quel giorno che anch’io serbo appuntato,
dietro gli occhiali che cosa, chissà,

mentre il cielo di Wembley nel negozio
specchiato negli occhiali si specchiava
- attraversando disco, schermo ed occhi -
nel riflesso che in me si conservava;

quando due schermi azzurri, in un istante,
intensamente indietro mi han portato
al giorno di Midge Ure e al mio lontano,
da umano a digitale a uman passato.




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