martedì 24 aprile 2018

SOTTRARSI


I video delle notizie che mi fanno patire non li guardo: mi basta la notizia, mi ci manca pure il video. Faccio a fidarmi. Quindi non ho visto il video del collega aggredito verbalmente dal 15 a Lucca, ma faccio un'ipotesi, forse sbagliata, forse più generale.
È vero che certe scene ci sono sempre state e che “i bei tempi andati” è un mito del cavolo: ammesso che oggi la situazione sia peggiorata davvero, in caso lo è per l’incrocio dell’antintellettualismo (berlusconiano e non solo) con la mentalità mercantile per cui “a che serve la scuola?” “non fa arricchire quindi non vale niente” ma anche per quella, sempre mercantile, che ha portato le scuole a essere ditte che si contendono gli iscritti, cosa che espone i DS (i presidi) alla tentazione di non essere troppo rigorosi nelle regole per non infastidire e quindi perdere alunni e di conseguenza cattedre, finanziamenti ecc…

Non penso sia colpa dello smartphone: quello anzi ci ha permesso di vedere quella scena, ha impedito che rimanesse in classe. Chi l’ha filmata e diffusa, infatti, non ha capito che prof e alunni potevano essere interessati, ognuno per motivi diversi, a non far trapelare all’esterno quanto successo: gli alunni per le punizioni, il prof. per la figura. Ha attirato l’attenzione, ha fatto discutere, ha suscitato l’allarme (e anche un mare di idiozie, come sempre, tipo appunto “i bei tempi andati”, “il rispetto che c’era una volta” et al.), ha impedito che passasse sotto silenzio.
Eppure, non so se quella del collega  sia stata davvero una brutta figura: cosa doveva fare, in fondo?
Picchiare l’alunno? A parte che non si può (e che il collega, causa problemi recenti di salute, forse non era al suo massimo di energie), ma poi è roba da reazionari e da ottusi, da gente che ignora del tutto Beccaria (ovvero più o meno chiunque), da benpensanti che davanti a ciò che non conoscono o che esula dai loro paraocchi reagiscono con una violenza protetta, istituzionale, cancellatoria: a volte due schiaffi ci vorrebbero, ok, ma in generale un certo tipo di reazione è il modo sicuro di creare un irrecuperabile nemico della scuola, processo che è già a buon punto e che non è il caso di accelerare.
E allora?
Allora, come mi ha detto un amico, anche lui docente, un anno che mi rammaricavo di aver promosso due alunni che invece in sede di esame avrei dovuto prendere a sberle (e se il giudice avesse visto un filmato dell’esame mi avrebbe dato una medaglia, altro che condanna), allora sottrarsi.
Dico, al gioco messo su da chi non ha capito che i professori che uno ha davanti sono un’opportunità, che vanno vampirizzati dei loro saperi, scolastici o meno (cosa che non hanno capito in tanti, compreso il sottoscritto); che finché lo Stato paga per metterteli a disposizione bisogna prendere TUTTO quello che possono dare. Poi deciderai come usarlo, qualcuno magari non avrà moltissimo da dare, ma intanto bisogna predare, proprio, tutto quello che si può.
Invece, tolti i teppisti veri (proletari o meno) ma in parte anche loro, alunni tipo questo usano il docente per sentirsi grossi ma in situazione protetta, una versione malata di quando da bambino giochi a carte con tuo nonno e lui ti fa vincere per farti acquistare fiducia. L’unico uso che sanno fare dei docenti è quello di polo polemico, di punching ball per fare i forti ma senza rischi (infatti con certi docenti non si permettono), perché sanno che più di tanto il professore non ti può fare, e ciò che rischiano è la bocciatura o altre conseguenze scolastiche delle quali è evidente che, a questo punto, non gli importa nulla.
E allora sottrarsi: a Roma l’atteggiamento sarebbe “Hai finito co’ sta sceneggiata? Dura ancora tanto? Vatte a sede’, va’”, ma più accademicamente, davanti all’impossibilità di un dialogo o di cambiare questi ruoli, la risposta è  “Non accetto questo gioco”, è non mettersi allo stesso livello né mostrare, con reazioni strillate, la debolezza di rivelarsi colpiti o messi in difficoltà, di mostrare che quell’atteggiamento ha toccato un problema, uno di quelli che in quanto essere umano ti porti sicuramente dietro.
La scuola c’è anche per questa parte del processo di crescita, certo, e quando fai il professore ti prendi in carico parte dell’evoluzione caratteriale dei tuoi alunni, ok; ma se è solo quello allora no. Allora il 6 te lo do, ti do anche il diploma: sai benissimo che è vuoto, sai che non si vede ma sotto la sufficienza c’è scritto “vai, vai nella vita reale a fare queste scene, vediamo quanto duri; vai a farle con gente che non ha i freni umani, culturali e legali che ha un professore; vai a rispondere così a un datore di lavoro, vai a imparare le cose in maniera ruvida e senza riguardi” (un “vaffa” implicito, insomma).
Certo, non siamo a Hollywood, quindi è inutile e ingenuo aspettarsi finaloni con scene madri tipo lo studente che davanti alle tramvate prese dalla vita si ravvede e ripensa a quanto gli diceva l’insegnante, o peggio che torni a cercarlo per ringraziarlo: non siamo ridicoli, dai. Tutt’al più, quando crescono e sistemano qualche problema e ti rincontrano diranno, scherzando un po’ per autoassolversi un po’ perché davvero minimizzano, “l’abbiamo fatta impazzire, eh?”, ma nulla più. Normalmente, parte di questi resta arrogante, molesta e socialmente dannosa, com’era a scuola, e un’altra parte invece, con l’età, si dia una almeno parziale calmata.
Ma quello che faranno dopo, anche se parte del lavoro è proprio prepararceli, è un altro discorso e ci riguarda fino a un certo punto: conta cosa fare quando sono lì.
E finché si può provare a fare qualcosa si prova; dopodiché non mi ci ammazzo, fa’ un po’ come te pare.
Non c’è scritto ufficialmente, ma anche “prenditi le conseguenze di quello che fai” è parte del programma.

mercoledì 18 aprile 2018

LA PIOGGIA SUL PIGNETO


Per scrivere una poesia sulla mia città di origine è stato necessario pensare un gioco di parole cretino sul titolo di una poesia celebre, scritta vicino a dove andai a vivere dopo Roma e ambientata vicino a dove abito ora. Tutto si tiene, alla fine.

LA PIOGGIA SUL PIGNETO

Non taci.
Sulle soglie del centro
non odo parole che dici
banali,
ma idee meno sòle
che sgorgan da dentro
le teste anormali.
Ascolta,
piove sulle truppe sparse
la cener di idee
e di conquiste arse,
piovono i tristi rimbombi
di idee-zombi
che speravam morte e sepolte
e invece ritornano
a volte,
ed ora folte
fioriscon nelle menti corte;
piovon minchiate
più che mai forti,
e lerci
i contorti berci di chi,
in tempi retrivi e tristi,
ce l’ha con gli artisti
e gli alternativi.

Piove sui vivi pensieri,
piove sui neri
di viso,
su un quartiere sveglio
che non è il paradiso
ma in cui vivon meglio,
non chissà che,
ma meglio,
sempre problemi
ma meglio
ché forse non sciala
come altrove la mala,
ma piove,
comunque.

Piove sull’hipster
(che poi, alla fine,
chissà se esiste)
e sulle patatine, il sacchetto
di Cipster
sul binario negletto,
forse rifiuto
del baretto.
Piove sul mur graffitato,
piove su Roma,
imper disgraziato,
che è altri che graffia;
piove sulla mafia,
sulla Magliana
forse non tanto lontana.
Piove sui vecchi
e sui nuovi pericoli,
sui tornanti gianicoli
- tonante il cannon negli orecchi
e il croscio del traffico tardo,
e il guardo
s’ incanta
davanti a una parte tanta
del pian ramno-lucero-tito,
davanti
a questo paesone infinito.


Piove sulle vie dell'urbe,
sulle sue manie
e le sue turbe;
sulle innumeri vie,
sui vicol coi panni
appesi
che sanno di anni lontani ed accesi,
san dei contesi settanta,
i sampietrini sui quali piove e piovea
adesso e nei lunghi
secol papalini
(come i settanta,
 dai lumi dagli ardui destini).
E le vedi insieme queste ere,
non come a Berlino dove
l'una all'altra sta vicino,
ma fuse;
e piove sulle locali genti, use
a contemplar ascese e cadute,
e a commentar scaltro
con chiose argute
"Vai, eccone 'n altro".
le glorie novelle ben presto perdute.
Piove sui mille suoi anfratti,
su ogni suo dove
sui suoi mille gatti,
sul suo vasto suolo
che per conoscerlo intero
ci vuole un viaggione
come Ulisse o Marco Polo;
a narrarlo ci vuol l'ispirazione
di Omero, di chi scrisse
l'Odissea
o Er Mijone.


E insiste sto tempo da chien
che infuria qui:
tornando al quartiere bohemien,
probabile è che io mi illuda
di favola bella, davanti
a un’epoca cruda,
a una città ruvida;
eppure mi sembra che qua,
vicino a Salaria e Pantanella,
sia l’aria,
non sol perché la monda
la pioggia,
mi sembra qui l’aria
un po’ meno immonda,
mi sembra più bella.
E temo di sì,
ma spero che tardi o mai qui
entri,
col suo carico d’aumenti,
il gentry, e di guai;
il gentry che incombe, che pende,
minaccia ben peggio che il gender:
ove arriva caccia
e conquista;
e che fine trista,
sarebbe.

17/03/2016