mercoledì 6 febbraio 2013

L'ARTE È ROTONDA (e segue un moto di rivoluzione).

Domanda: calcolando che c'è una corrispondenza tra gli anni più divertenti della mia vita e quelli in cui non seguivo per niente o quasi il calcio (non dico causalità: dico corrispondenza), perché mi capita ancora di accalorarmici?
In teoria, chissenefrega: non vivo in una situazione in cui tifare una squadra ha significati sociopolitici, e bandiera e appartenenza a) li riservo al socialismo b) in certe forme sono roba da militari e quindi fuck.

È che nei suoi momenti migliori considero il calcio una forma d'arte: disciplina umana che richiede sapienza, visione e creatività. Si può fare anche in maniera anonima e meccanica, ma ha anche possibilità appunto d'arte.
E sull'arte ho idee ancor meno moderate che in politica: mi piace quella che azzarda, quella improntata alla stranezza e alla forzatura dei canoni, quella "demente", quella che cerca l'armonia dove non sembra esserci, o che se ne inventa una nuova. Non dico oltranzismo-sempre-e-comunque, perché apprezzo anche la bellezza di una creatività semplicemente leggera e arguta, o una poetica armonicamente compiuta e soprattutto la bellezza della classicità piena -che però è sempre feconda (se uno guarda dietro le cristallizzazioni da manuale/cartolina nasconde sempre spunti interessanti) e sicuramente quando comparve era rivoluzionaria, oltre al fatto che nella sua armonia superiore c'è l'immagine di quell'armonia collettiva e individuale che si insegue con la rivoluzione.
Perché è tutto collegato, e se una canzone o un libro non bastano di sicuro a farti assaltare il palazzo (e tantomeno una partita), è pur vero che un pensiero rivoluzionario non lo aiuta un'arte accomodante, pigra, timorosa, addormentata sui binari del consueto per convenienza o paura della disapprovazione (benché esistano artisti rivoluzionari che però nella vita sono conservatori, e rivoluzionari veri dai gusti artistici timidi).
Perché se la rivoluzione parte innanzitutto da una liberazione mentale, 'sta mente va scossa, spinta, tirata.
Per questo mi piaceva Zeman (e anche perché sono cresciuto con la Roma di Liedholm, che del bel gioco faceva una religione, e al riguardo anche negli anni successivi l'AS Maggica vantava una buona tradizione di scommessa [e non di calcio-scommessa, come invece qualcun altro] sul nuovo, vedi Eriksson e Spalletti): audacia e bellezza, calcio non opportunista ma con una visione diversa.

[anche troppo: non per lui, ma perché si è diffusa la strana idea che siccome azzardava allora doveva essere perfetto (quindi i rimproveri che "non vince", come se ogni anno non ci fossero una ventina abbondante di allenatori che NON vincono nulla), nonché il curioso dogma dell'onnipotenza di Zeman, per cui qualsiasi cosa combini la squadra è colpa sua (strano perché di solito ai dogmi ci credono i fedeli, a questo invece credono i detrattori), dimenticandosi che lui è strano, ok, è pure un personaggio, ma alla fine è un allenatore come gli altri cioè con pregi e difetti, con un suo tipo di gioco che è adatto a certi organici e ad altri meno, tutto qui]

Questi sono i motivi per cui mi piace.
Il culto romantico dell'artista genio e incompreso? Lo slancio verso l'utopia?
Balle: sono un materialista dialettico, il romanticismo c'entra zero, sul culto degli artisti mi sono espresso qui, e l'utopia vagheggiata come sogno bello e irrealizzabile la lascio a quella malaugurata e dannosa categoria di persone che tutte le sue aspirazioni al meglio le confina nel reame dell'ideale, dell'irrealizzabile, finendo così, nel concreto e nel quotidiano, per calarsi le braghe davanti a tutto il peggio: tanto il cambiamento è utopia…
Nella canzone che gli ha dedicato, "La coscienza di Zeman", Venditti fa una cosa del genere dicendo: "il sogno non si realizza quasi mai" - che potrebbe sembrare realistico e conseguente agli indubbi limiti dell'essere umano.
Beh, io invece rispondo con Gaber e il suo "un uomo concreto come un sognatore", e ribatto che "umano" è l'appellativo che Majakovskij usa come lode somma a Lenin, uno che insieme a Marx l'ha piantata con l'utopia ideale e si è messo ad analizzare le condizioni concrete e reali per il cambiamento, per la rivoluzione.
Perché l'utopia è il quadro, l'idea generale verso cui muoversi, ma tocca mettersi a lavorare sul reale per metterla in pratica, perché si può, perché volendo si vince.
E che c'era di più saggiamente realistico che farsi sostenere una rivoluzione, sia pur calcistica, dai soldi dei capitalisti americani (quando uno dice "sporcarsi le mani…")?
Certo, il realismo avrebbe dovuto imporre alla dirigenza italiana di guardare alcuni dettagli tipo appunto la realtà.
E cioè: dopo lo scudetto del '42, in 71 anni la Roma ne ha vinto uno con un altro utopista come Liedholm (che al primo anno arrivò settimo e lo scudetto lo vinse al quarto) e uno con Capello (al suo secondo anno -al primo lo vinse alazzie- e però con campagna acquisti da bancarotta) poi BASTA, non è che li perde solo quando arriva Zeman; che le altre volte che lo ha sfiorato era sempre con allenatori dal gioco originale (unica maniera per supplire - e manco sempre - alle minori disponibilità economiche e al minor potere a palazzo); che la Juve ha sbagliato 4 campagne acquisti negli ultimi anni, prima di rivincere; che Inter e Milan ancora non hanno ricostruito a dovere la squadra; che hai una difesa di ragazzini sudamericani più un nazionale spompato dall'europeo e un Burdisso ultratrentenne, inadatto a quel gioco e reduce da un infortunio tosto; che due anni fa è finita la squadra che era stata quasi uguale per tutti i secondi anni 2000 e che la stai ricostruendo; che anche quando hai soldi le squadre si costruiscono col tempo; che quest'anno hai visto il più spettacolare campionario a memoria d'uomo di errori individuali in difesa (più qualcuno degli arbitri, un po' degli attaccanti, e il buon Murphy appostato con la carabina) - e sì, qualcuno anche di Zeman, ma anche tanti momenti di gran gioco che ben promettevano per il futuro.

Invece lo hanno licenziato, mossa con cui la dirigenza italiana ha dimostrato sia poco realismo sia poco slancio verso l'arte e verso una rivoluzione che sarebbe stata soprattutto culturale: vincere senza svenarsi in campagne acquisti da sceicchi e attraverso la bellezza (e temo che il problema per il sistema/mercato calcio fosse e sia proprio l'eventuale vittoria di un'idea del genere).
Soprattutto poca convinzione nelle proprie scelte, quasi paura.
Tra l'altro, mettendolo in discussione prima ed esonerandolo poi hanno anche dato troppo potere ai giocatori nonché confermato l'idea, del tutto delirante, che siccome Zeman è un allenatore "strano" allora avrebbe meno autorità di un altro, allora lo puoi discutere: boh… questi non sanno nemmeno quello che m'hanno insegnato a 16 anni per fare l'animatore/custode di bimbetti ai campeggi dell'YMCA: che esistono situazioni, e una squadra è una di quelle, in cui l'autorità non deve mai mostrare crepe e/ dissensi, altrimenti perde di efficacia (perché il sospetto di una mezza rivolta della squadra aleggia...).

Niente, quindi delusione: il ritorno di Zeman alla Roma lo aspettavo da 12 anni, perché ci tenevo che la squadra per cui tifo (ma a questo punto con molto meno entusiasmo) si facesse promotrice di una rivoluzione se non altro culturale, guidata dalla e diretta verso la bellezza.
(e dico culturale perché le persone temo siano tutti una banda de destri senza speranza, a parte un paio tra i quali NON c'è Zeman: al riguardo, possibile che dobbiamo sfigurare davanti a quel destro de Sirvio, che quando prese Sacchi dalla serie C, davanti alle prime difficoltà andò negli spogliatoi a dire "l'allenatore è lui, pure se andiamo in serie B"? Così si difende una scelta).

E invece nulla: la rivoluzione ha perso un'altra battaglia.
E ha perso anche un po' l'arte.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Per quanto si possa essere pragmatici, lavorare ad un cambiamento significa credere in qualcosa che non c'è, che non è realizzato. L'utopia per alcuni è una compensazione (come giustamente dici), per altri qualcosa di più concreto che può realizzarsi a patto di rimuovere gli ostacoli "reali" che lo impediscono. In ogni caso però si è ispirati da qualcosa in cui si crede e che è più o menolimitato alla sfera dell'ideale. In questo senso c'è del romanticismo. Poi ripeto, c'è chi vi si rifugia e chi ne prende la forza per far leva sulla realtà. È anche la storia dei movimenti di liberazione. In questo senso la politica (o il calcio) e il 900 sono solo un orizzonte limitato. Hai ragione a parlare dell'arte, e a questo proposito scelgo di citarti il poeta latino Lucrezio, che non ha la forma delle avanguardie ma comunque un messaggio dirompente.

Mario Danesi (anagramma).