martedì 31 gennaio 2017

Sanremo 2017: pre-giudizio

Da buon amante del rock non ho mai amato il Festival nazionale, anche perché negli anni '80 ero pienamente nella prospettiva, certo non solo mia, che nella musica ci fosse il Muro di Berlino: di qua il rock e la musica "vera", il "Bene"; e di là il pop, il "commerciale", cioè il MALE. E essere comunista, quindi naturalmente diffidente verso il mercato, non aiutava.
Poi sì, qualche eccezione la ammettevo, e fino a un certo punto i gusti non erano così rigidamente definiti. In più ero adolescente, e se questo da una parte porta rigidità dall'altra significa indefinitezza; per cui a qualche "guilty pleasure" mi capitava di cedere. E poi era la musica della mia epoca, non potevo essere del tutto impermeabile, e per finire, col tempo, ho imparato non solo a sfumare i giudizi e a rivalutare qualcosa (senza esagerare, eh) che inizialmente avevo bollato come "male (e che magari lo era pure), ma anche a capire che certo pop dev'essere così: leggero, divertente e anche sciocchino e va bene.
Per il Festival la questione era simile: mi pareva una baracconata della più banale e passatista tradizione italiana nella sua versione peggiore, declinata nel modo più superficiale e meno coraggioso possibile. E non avevo, né ho, davvero tutti i torti.
Ma anche qui ci sono i però: le eccezioni, ad esempio, e il fatto che alla fine in famiglia un occhio ce lo buttavi sempre. E una volta uscito di casa per andare all'Università, non avevo nemmeno la tv in casa né la cercavo per Sanremo; ma perfino durante la Pantera un paio di occhiate gliele demmo (ricordo pochi secondi di Dee Dee Bridgewater che gorgheggiava su Uomini soli e il momento in cui col telecomando passai su Rai 1 e vidi Cutugno che in quel momento cantò "Accesi, spenti e stupidi speciali / due consonanti perse in tre vocali" e, folgorato dal secondo verso, decisi che poteva bastare).
E più tardi, tra il gusto di divertirsi col trash e gli amici gay, alla fine Sanremo lo guardavo ogni anno (e qui sul blog l'ho commentato pure). Anche perché da un certo punto in avanti qualcuno deve aver capito che il pubblico non era più fordista-generalista, ma che toyotisticamente esistevano tanti pubblici diversi, e quindi Sanremo iniziò sempre più a sembrare compilato col manuale Cencelli: due vecchi, un vecchissimo, qualche affermato strafamoso, 2-3 bravi davvero, un paio di icone gay e qualche ignoto, con gli insiemi che si intersecavano: e così, tutti accontentati. Se poi c'era un presentatore vivace e qualche ospite buono, o un Fazio che con una mano ti fa il pretino e con l'altra ti fa vincere gli Avion Travel o ti porta Caetano Veloso e Antony meglio ancora.

Però...
...però poi i nodi vengono al pettine; e va bene che siamo in tempi di compromessi, di moderazione, tempi in cui molti si sono dimenticati che a posizioni alternative sarebbe il caso di far corrispondere anche gusti un po' audaci e orientati verso il nuovo, tempi in cui molti non sanno più che "indie" era un misto di suono e posizioni politiche entrambi critici del mercato, e ci fanno le battutine cretine sugli hipster;
va bene che intorno a te c'è un coro di "eehh... ma che ti metti a fare? E dai, non essere estremista a sproposito", e ok che tutto si rivaluta (ahimè), e che "dai, la dicotomia commerciale/non commerciale non ha senso, è da rigidi fuori tempo massimo";
e mettiamoci pure, da una parte, un bel libro, per quel poco che ne ho letto, come Nonostante Sanremo, che parlando di tutto il bello passato al Festival dovrebbe ammorbidire le posizioni ma in modo saggio (non come gli argomenti che ho elencato nelle righe scorse); e dall'altra il fatto che il Festival te lo guardi senza aspettarti troppo, così, per curiosità e perché tanto d'inverno in mezzo alla settimana stai a casa, dunque...

Mettiamoci tutto, ma poi tanto i nodi vengono al pettine, ribadisco, e tanto poi va a finire come diceva Churchill, che accetti "il disonore per evitare la guerra e alla fine [avrai] il disonore E la guerra", e accetti i compromessi in cambio di qualcosa e poi se lo rimangiano.
Non parlo del fatto che segui una trasmissione per una settimana per poi veder vincere Cristicchi con una canzone di un retorico che dovrebbe essere perseguito penalmente, o che comunque ti sorbisci, per poche cose valide, una tonnellata di musica obbrobbriosa o al massimo carina (ma se va bene) e dell'intrattenimento per lo più veramente commerciale, perché purtroppo Sanremo è Sanremo per davvero; o che ti fai davvero un torto a cadere nella terrificante mentalità del luogo comune "vabbè, ma Carlo Conti alla fine è spigliato, è bravo, un po' di musica la conosce, magari fa una cosa divertente" (quando pensi così il Male/capitalismo mediatico/conformismo/ristrettezza culturale ti ha contaminato): o quantomeno non parlo solo di questo.
Il Sanremo di Carlo Conti è per lo più tremendo, il cast di quest'anno fa addrizzare i capelli (la Mannoia e il cantante dei Subsonica, Samuel, non bilanciano il resto) e 5 serate di Maria De Filippi sono una pena alla quale nessun tribunale mi ha condannato né sono così autolesionista da infliggermela da solo.
Per certe cose il Festival sarebbe pure divertente, non lo nego, così come il gioco di commentare con gli amici (pure quelli etero) e la curiosità te la stimola; ma per come si preannuncia no, non ce la posso fare: non rinnego la passata consuetudine di guardarlo in famiglia o con gli amici, non rinnego i commenti e ringrazio per i Quintorigo e tanti altri, ma quest'anno no way, no se puede.
Poi finirà che cenando un pezzo lo guarderò lo stesso, ma probabilmente finirà anche, com'è già successo, che in certi momenti cambi canale, becchi un bel film e rimani a guardare quello: viste le premesse, mi sa che è il caso di andare direttamente al film.

giovedì 5 gennaio 2017

L'ora dello scassaballe - Osservazioni culturali sparse

Qualcosa che ho letto, qualcosa che ho visto. Perplessità e apprezzamenti.

- Piaciuto l'ultimo Dylan Dog ("Gli anni selvaggi", n. 364) anche se tutto sommato classico: c'è una bella dose di malinconia, e c'è la bella trovata della playlist su spotify dell'autrice: qualche scelta è un po' scontata e sarebbe stato meglio includere le canzoni citate nel testo (quelle vere, almeno, che sono anche poche - forse una), ma Cascade di Siouxsie, anche solo per la voce, mi ha ricordato i miei primi anni '90 e far conoscere Blank Generation di Richard Hell & The Voidods è cosa buona e giusta.

- Letto il mio primo libro del commissario Rocco Schiavone, Cinque indagini romane: buono, mi piace, anche se lo spaccaballe nota che accanto a battute di un romano perfetto ce ne sono alcune, in bocca agli stessi personaggi, troppo in italiano: un'alternanza un po' poco credibile, tanto che sono andato a controllare se l'autore è romano. Lo è. Boh. Difetto veniale, comunque.

- Ho iniziato a leggere un'antologia del mitico Ettore Petrolini (Teatro, ed. Garzanti): interessante, personaggione, anche se alcune battute lette oggi suonano banali. Per esempio, nello sketch di Giggi er bullo fa dei giochi di parole veramente da anni '30: più belli, comunque, e più intelligenti e divertenti delle battute che si sentono nel trailer di Natale a Londra.

- Letto Il gagà di Massimiliano Mocchia di Coggiola: il sottotitolo è Saggio sull'abuso dell'eleganza, ed è un bell'excursus storico sull'argomento, un interessante pezzo di storia del costume, anche divertente.
Lo consiglio, ma lo scassaballe che è in me non può fare a meno di notare un "hit parade" usato al posto di "hit" (ovvero "classifica di successi" al posto di "canzone di successo") e un paio di "piuttosto che" usati nel modo sbagliato che va, ahem, di moda ora. Dal libro di uno così raffinato non me lo aspetto, ecco.

- Sto leggendo un libro su Lynch intitolato Da Twin Peaks a Twin Peaks di Andrea Parlangeli e, come il pavimento della stanza rossa, ha cose buone e qualcuna che mi sveglia lo scassaballe.
Accanto a notazioni interessanti e a una notevole conoscenza dell'argomento, ho infatti trovato:
- "affianco" invece di "a fianco" ("affianco" sarebbe la prima persona del presente indicativo di "affiancare", ma vabbè);
- un commento su Inland Empire in cui dice che la trama è incomprensibile e che quando lo vide aveva cercato spiegazioni sul web senza trovare nulla, quando gli sarebbe bastato leggere un articolo su Cineforum (io lo beccai per caso, lui che scrive un libro magari dovrebbe conoscerlo, anche se non si può leggere tutto), dal quale la trama appariva di una semplicità e chiarezza che ti facevano vergognare di non averla capita subito (i significati delle singole scene sono un altro discorso, ma almeno l'impianto base...); poi nelle pagine dedicate al film riprende in effetti l'ipotesi dell'articolo, ma sarebbe stato il caso di nominarlo.
- l'analisi dei film preferiti di Lynch e degli echi che se ne ritrovano nei suoi: manca Bella di giorno, che per Mulholland Drive è fondamentale, ma forse Lynch non l'ha indicato tra i suoi film-culto.
Però neanche nel capitolo di Mulholland lo nomina: visto che per ogni film analizzato fa una lista di film di riferimento, alcuni anche molto particolari, questa è una carenza.
- La lista dei film alla fine di ogni capitolo: c'è qualche ripetizione, e sarebbe il caso, oltre al film e all'anno, di scrivere sempre il regista, cosa che non fa - per esempio quando cita Glen or Glenda la prima volta; e tra l'altro le due volte che lo cita lo fa con due date diverse.
Pignolerie a parte, però, facendo tacere lo scassaballe devo dire che è un buon resoconto della carriera e soprattutto dei temi di Lynch.

- Forse dovevo iniziare dai libri veri e non da quella, ma non ho capito perché Giorgio Manganelli abbia inserito nella sua antologia personale tutti quegli articoli di giornale: molti contengono osservazioni profonde e argute, spesso ti fa venire voglia di leggere ciò di cui parla, ma a volte "giornalisteggia", in stile Corriere o Repubblica, e lì dà ai nervi. Il pezzo sulla Santa Teresa in estasi, poi, va un po' troppo sul filosofico per me, non l'ho capito: forse avrei dovuto leggere meglio (e di più) Carmelo Bene per capire quei discorsi sull'assenza.
Ma l'intervento su Jung e la letteratura è veramente bello, pieno di spunti più che di risposte. E comunque, scrittore da esplorare.

- L'ultimo romanzo di Nada, Leonida, apre un po' il racconto rispetto alla molta autobiografia dei precedenti Il mio cuore umano e La grande casa, ma i suoi temi preferiti restano al centro. Il libro contiene ingenuità e parti interessanti, momenti "scritti bene" nel senso più ordinario del termine e ruvidezze invece interessanti. La scena del coltellino e del laghetto è assolutamente, perfettamente realistica.
SPOILER CHE SCRIVO IN CARATTERE PICCOLO:
Cara Nada, ho capito che ti piace raccontare storie di famiglie "matrilineari", che nelle discendenze ti interessa quella linea lì, ok: ma che quando una donna importante di un tuo libro mette al mondo due maschi questi siano gay, dai, non stai esagerando? (si scherza, eh).

- Ho conosciuto Jonathan Coe sentendone parlare in questa circostanza, e da allora ho letto svariati suoi romanzi, apprezzandoli. L'unica eccezione era stato Donna per caso, che parte bene ma sul finale sbraca del tutto, come se gli si fosse spenta l'ispirazione; ma per il resto mi erano piaciuti tutti, alcuni anche parecchio.
Poi ho letto Circolo chiuso e no, non ci siamo proprio. Mi ricordo male la puntata precedente, La banda dei brocchi, ma mi pareva che mi fosse piaciuto: questo invece no, per motivi sia letterari sia meno letterari.
Per quanto riguarda quelli letterari, Coe, per raccontarci cosa è successo ai personaggi, in svariati punti si affida a lunghissimi riassunti, a volte suoi a volte in bocca ad altri personaggi; contraddicendo così l'aurea regola della narrativa "show, don't tell": ci tells parecchio, invece, come se avesse elaborato troppo, e di questo troppo solo alcune cose gli interessasse show. Purtroppo lo fa anche in una scena importante del romanzo successivo, La pioggia prima che cada, che invece è molto bello.
Per quanto riguarda invece i motivi non-tanto-letterari, devo dire che in questo romanzo fa una cosa che in letteratura non amo tanto (i precedenti che ho letto io sono Amsterdam di Ian Mc Ewan, Il falò delle vanità di Tom Wolfe e Coscine di pollo di Tom Robbins): si accanisce contro personaggi che non se lo meritano e usa uno sguardo benevolo - come la sorte che riserva loro - verso altri che invece sono insopportabili, vedi tra i primi il povero Ben e tra i secondi quella m***a del fratello, o la Claire che pontifica sulle vite degli altri mentre lei è coerente a comodo suo, o la tremenda Cicely.
Dopo questo mi è un po' calata la voglia di leggere quelli successivi, anche se come ho detto La pioggia... meritava.